| Billie Holiday “Ehi, Paparino, dolcezza,gran figlio di puttana!” di Riccardo Bertoncelli
Non una biografia ma un documentario a incastro. Così un libro racconta la vera storia di Billie Holiday, la signora del jazz
Sono un feroce morsicatore di libri. Non li leggo, li sbrano a piccoli morsi, irregolarmente, mastico a zig zag seguendo la luna. I romanzi mi sfuggono, se hanno una trama coerente rischio di straziarli: prediligo i racconti, le storie che si accavallano e s’intrecciano – alla fine la sequenza la decido io, sono un DJ che remixa. Quest’estate ho trovato un libro ottimo per me, un libro di storie da (s)comporre a piacere con una storia strana e fatale prima di tutto. Ascoltate. C’è una donna all’inizio degli anni 70, Linda Kuhel, che decide di scrivere un libro su Billie Holiday, la grande inquieta cantante jazz. È un tipo tosto, metodico, passa mesi e anni a raccogliere su un registratore a cassetta le testimonianze di oltre 150 persone che l’hanno conosciuta più ogni altro materiale che possa importare, e anche non importare: ritagli di giornale, documenti legali, cartelle ospedaliere, dossier della polizia, lettere private, bigliettini, liste della spesa. Alla fine, dopo aver riempito due scatole di scarpe con tutto quel po’, prova a cavarne un libro. Passano gli anni, Linda scrive e riscrive ma non va mai lontano. L’editore si preoccupa, si irrita, alla fine si stanca. Billie è diventata un’ossessione e, con quel fantasma nella mente, la donna va a Washington una sera di gennaio del 1979 per assistere a un concerto dell’orchestra di Count Basie. Quando torna in albergo, si getta da una finestra del terzo piano. Passano altri anni, le due scatole di scarpe con quel lascito favoloso e maledetto finiscono nelle mani di un collezionista. Lo viene a sapere un’altra scrittrice, Julia Blackburn, che chiede di accedere a quel materiale. Non sa bene cosa farne ma è affascinata dalla storia, e determinata, e quando vede le carte decide che prenderà lei il posto di Linda Kuhel. Non è un lavoro facile, anche Julia deve abbandonare l’idea di un racconto organico e coerente ma alla fine inventa lo spartito giusto: “un documentario”, come oggi scrive, dove un coro di voci ineguali e dissonanti raccontano la storia di quello strano frutto morsicato da molti e un po’ per volta, piuttosto in fretta, spolpato dalla vita. Il libro si chiama Lady Day - La vita e i tempi di Billie Holiday, l’ha appena pubblicato Il Saggiatore ed è un viaggio straordinario nel secolo scorso, in un mondo così vicino così lontano di piccoli locali e teatri sciccosi, bordelli, fumerie di marijuana, papponi, spacciatori, musicisti ubriachi di jazz o semplicemente di alcol. Billie Holiday abita quel mondo, anche se dire “abita” è troppo poco. È nel suo sangue, nella sua carne, alla fine nella sua voce, con malinconia e sfrontatezza insieme, con gioia, repulsione, voglia di vivere e smania di farsi male: fin da quando è piccola e la madre la trascura per fare la vita, fin da quando a 10 anni viene mandata in un riformatorio, e a 12 è stuprata da un vicino, e a 14 arrestata dalla polizia nel corso di una retata in un bordello. La musica sboccia come l’unica cosa bella di quel tempo malato, un fiore raro. A 15 anni, nella primavera del 1930, la ragazza canta ai tavoli di un club di Harlem “come un violinista gitano in un caffè di Budapest”. È più o meno in questo periodo che Eleanor Holiday diventa Billie, in onore di Billie Dove, un’attrice bianca idolatrata come “la Bellezza Americana” . Più avanti sarà “Lady Day”: la Musa, l’ineguagliabile signora del jazz. Julia Blackburn teme che le tante storie che si intrecciano nel suo libro finiscano per dare una immagine contraddittoria della donna e dell’artista. È un timore infondato. Basta ascoltare le sue registrazioni, meravigliose o miserabili, per capire che Billie Holiday era un diamante con tante facce diverse e stridenti, “una delle donne più belle del mondo, piena di grazia, con una pelle di velluto come Satin Doll” e “una sciattona grande e grossa che portava lo stesso abito tutte le sere”, “una ragazza solare estremamente silenziosa, a cui piaceva ridere” e una star che “andava nei bar dei bassifondi con la sua pelliccia di visone e apostrofava tutti dicendo ‘troia’, ‘bastardo figlio di puttana’, ‘cosa fai di bello?’, e c’erano dei ragazzini sporchi e in disordine e lei se li stringeva tra le braccia senza curarsi di nulla, anche se erano tutti imbrattati di melassa.” Non cercate tracce di dischi in questo libro, date di registrazione, una storia strettamente musicale. Troverete poco, giusto un capitolo dedicato alla sua canzone più famosa (e dannata), Strange Fruit. C’è tutto il resto però. C’è la gioia candida di Eleanor non ancora Billie quando in riformatorio viene battezzata in abito e velo bianco, e il dispetto degli amici il giorno che il cardinale Spellman vieta il funerale di cotanta peccatrice alla Cattedrale di San Patrizio. Ci sono i fidanzati “cambiati come si cambiano i pantaloni”, e gli innamorati, e i bastardi che la sfruttano e la picchiano come in certi suoi blues, “tutte le cantanti in quei giorni dovevano avere uomini che le maltrattassero e intascassero i loro soldi”, chiosa con amara ironia il contrabbassista John Levy, “sembrava quasi che fosse terapeutico”. C’è l’amore grande per Lester Young, l’adorato “paparino”, il partner perfetto, un altro monumento del jazz in onore del quale il libro si ferma e felicemente divaga. C’è il sesso sfrenato di una donna libera e inquieta, comprese storie di prostituzione e amicizie lesbiche, e la tirannia dell’alcol, delle pastiglie e poi dell’eroina, che finirà per rovinarla. La polizia la arresta in numerose occasioni ma la volta fatale è nel 1947, quando Billie è all’apice della fama, in grado di guadagnare 91 (di sperperare) 50.000 dollari l’anno. La mandano in carcere per un anno e lei non fa una piega, è una detenuta modello come quando era stata in riformatorio da ragazzina. Vorrebbe pagare e ricominciare ma non va così; diventa un bersaglio facile di poliziotti, giudici, giornalisti, le tolgono la Cabaret Card che le consentirebbe di esibirsi nei più grandi locali, la costringono al circuito minore. È un lungo, tormentato viale del tramonto a cui Billie alla fine si arrende. Quando nel 1959 William Dufty presta la sua penna all’autobiografia, “ci aggiunse tutto il sale che era convinto servisse per vendere, specie a proposito delle esperienze lesbiche di Billie e della sua storia di tossicodipendenza”. Lei non ha niente da ridire, firma e prende i soldi dell’anticipo. Esagerato e furbo, La signora canta il blues resta comunque uno dei più straordinari libri jazz, a cominciare dalle famose righe di apertura: “La mamma il babbo erano ancora due ragazzi quando si sposarono. Lui aveva diciott’anni, lei sedici, io tre.” Quando si torna con il pensiero a quegli anni 30 o 40 è facile cadere nell’oleografico, nella ricostruzione fatata di un mondo in realtà molto più crudo e difficile e storto di come ce lo racconta il mito. Lady Day non sembra correre questo pericolo. Il succo che stilla da questi racconti è aspro, pungente, il paesaggio che si intravvede è avvolto in una nebbia che spesso dà i brividi. Altro che “favolosi anni del jazz”.
“Quando parlo di quelle orchestre favolose, di Ellington, di Armstrong, di Chick Webb,” spiega a un certo punto un amico di Billie, Greer Johnson, “non pensate che noi le considerassimo tali. No, erano solo parte delle serate estive, insieme ai chioschi degli hot dog, alla piscina che puzzava di cloro, al frastuono delle montagne russe, ai vecchi tavoli da picnic segnati dalla pioggia, alle altalene di ferro malridotte. Le orchestre erano anche una delle facce dell’ebbrezza alcolica del Sud, con le coppiette che bevevano Coca e whisky, vomitavano, erano infedeli, disperate per amori non contraccambiati, spiritate. I musicisti di colore, con i loro ingombranti strumenti, i loro abiti da sera, erano lì solo per scandire il tempo che ritmava l’incedere barcollante e le coccole del fox trot che allora era di moda”
[spettacolooo!]
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