nuovo lavoro per la harvey dal titolo White chalk....ancora non l'ascolto come l'ho fatto vi faccio sapere che sensazione ho avuto
recensione su rock star l'allego qui perche ho problemi con il computer per il link diretto
L’ossuta ragazzaccia in corsetteria fetish tutta spigoli e contorcimenti ovarici del fulminante tris d’esordio (“Dry”, “Rid of me”, “4-Track demos”), la femme fatale morbosa e tormentata (“To bring you my love”), la richiestissima musa indierock al fianco di illustri comprimari come Nick Cave, Tricky, Mark Lanegan e Queens Of The Stone Age, fino alla songwriter più o meno “normalizzata” degli ultimi album (“Stories from the city stories from the sea”, “Uh uh her”), ma pur sempre capace di strigliarti l’anima come solo una Patti Smith giovane saprebbe fare. Artista schizofrenica e senza dubbio coraggiosa, Polly Jean Harvey, da oltre dieci anni, è la reginetta incontrastata dell’alternative rock declinato al femminile, laddove la connotazione sessuale diviene premessa imprescindibile, condizione - per così dire - fisiologica del proprio fare musica. Perché è esattamente di questo che si nutre la musica di Polly Jean: abbandono e impeto, grazia e dannazione, tormento del corpo ed estasi dei sensi. Questi gli estremi della sua femminilità contorta ed esasperata, minacciosa e perciò potentemente sensuale, perennemente sul filo del tracollo emotivo. Questa la febbre oscura, il rovello interiore che da sempre scuote e anima le sue canzoni. A cambiare, in occasione di questo “White chalk”, sono semmai le soluzioni formali, le strategie sonore - mai così eteree - prescelte per dar vita alla rappresentazione, come se l’ormai trentottenne musicista inglese avesse avvertito la necessità di mettersi ancora più a nudo, puntando dritto al cuore (nero) della faccenda. Di sicuro, comunque, è che il make up stilistico (esplicitato fin dall’immagine di copertina, con una Polly Jean in abito bianco e sguardo contrito) ci restituisce una cantautrice sorprendentemente “diversa”, forte di un’intensità che da tempo temevamo perduta. E insomma: dimenticate l’urgenza primordiale, i vocalizzi isterici e le veementi espettorazioni punkblues con cui la ragazza del Dorset ci ha a lungo seviziato. Spazio a undici concise (mezz’ora appena di durata) ballate di folk scheletrico e indolenzito affidate alla produzione di Flood e John Parish e rifinite da un paio di fidati collaboratori (Jim White alla batteria, Eric Drew Feldman al basso) per un album dai toni mai così sofferti e intimisti. Tutto è ridotto all’osso, solo piano e voce, chitarre e batteria a iniettare quel tanto di ritmo che basta per scolpire un pugno di melodie in bilico fra disincanto e dolcezza, speranza e rassegnazione. Sono guizzi di luce che fendono la notte (il folk ancestrale della title-track, la spoglia preghiera di “Dear darkness”), frenesie dell’anima trattenute a stento (una “Grow grow grow” dal fosco incedere Cocteau Twins, il crescendo senza sbocco di “Silence”), confessioni a luci basse (“When under ether”, il mantra sconsolato di “To talk to you”, l’accorata invocazione di “Broken harp”). Più di una semplice conferma, una rinascita in piena regola.