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MISSION OF BURMA Vs 1982 (Ace Of Hearts) | punk-rock

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ignazioo
view post Posted on 31/8/2015, 10:14




Tutto comincia quando Roger Miller, chitarra e Clint Conley, basso, s’incontrano a metà degli anni 70 a Boston, e cominciano a suonare a nome Moving Parts, forse per rimembrare il questo stesso inizio: “parti semoventi” che hanno migrato nello stesso posto nello stesso momento e hanno dato origine a qualcosa di fondamentale.
E quel qualcosa si chiama di lì a poco Mission Of Burma. Dapprima Conley e Miller assumono un batterista, il valentissimo Peter Prescott, e sul finire del decennio cominciano a girare per i circoli underground della Boston alternativa. Le loro prime fusioni hardcore sono già anomale, ma non bastava: manca l’elettronica a rendere ancora più efficace, e se possibile dotto, quest’alieno impasto di power-pop, acid-rock e, ovviamente, il più scalmanato punk-rock.

Fu così Martin Swope, già studioso di serialismo e musica d’avanguardia, a innervare le loro prime incisioni, pur stilisticamente ancora timorose (“Academy Fight Song”, “Ok No Way”, “Forget”, “Peking Spring” e soprattutto “Laugh the World Away”, tutte tra 1979 e 1980) di nuove dosi di caos e frammentazione elettronica. Il colpo gobbo arriva con il magnifico Ep “Signal Calls & Marches” (Ace Of Hearts, 1981), con la tonitruante, anti-eroica “That’s When I Reach for My Revolver”, loro inno supremo, e tutta una serie d’invenzioni (su tutte il magma chitarristico-tribale di “All World Cowboy Romance”) a descrivere uno spettro incredibilmente vasto, per un gruppo punk.

Per quanto rivoluzionaria suonasse la portata di questo primo lavoro, non è comparabile al loro primo disco lungo, “Vs”. Tutte le volontà del complesso qui s’incontrano e scontrano e dissipano insieme, l’hardcore punk tradizionale si frantuma e rigenera attimo per attimo, la melodia - mai dimenticata e forse talvolta anche più in evidenza - fluttua tra le macerie armoniche vaganti. Ogni singolo dettaglio di “That’s When I Reach for My Revolver” diventa sviluppo dettagliato, occasione drammatica, persino tragica.
Spettacolare è l’attacco di “Secrets”, uno sprint detonato dalla chitarra con tremolo riverberato, dal basso angoloso e dissonante e dallo scompiglio di sovraincisioni dei nastri riprocessati, in cui la voce vi si accomoda con implosa disperazione (sugellata anche dai controcanti caotici), una favolosa jam di preludio che farà innamorare gli Husker Du, e uno dei migliori incipit del punk-rock tutto.

Anche “Trem Two” attacca con degli eco di chitarra, ma stavolta la band procede in direzione di un raga con voci basse, e persino sembra andare in cerca dell’estasi da mantra tibetano, anche se nel frattempo accumula tensione con l’addizione di elementi arcani, tanto armonici quanto percussivi, qualcosa che discende dalla new wave in versione Feelies.
Una delle più free-form, anzi con uno svolgimento davvero istintivo, è “Learn How”, con continui controtempi senza requie, la chitarra che passa dal riff regolare al lamento noise-rock, il basso che da mitraglia si fa singhiozzo alienato, e soprattutto la sceneggiata infernale delle voci sgraziate dei due.

Vero inno al caos è “New Nails”, tutto bip industriali, voci schizoidi, barriti free-jazz, deformazioni elettroniche, tempo maniacale, sing-along sbraitati, uno dei tramestii più inquietanti dell’era. Idem per “Fun World”, un’altra danza Pere Ubu-esca anche più esasperata e vorticante, incastonata tra un basso che si produce in sottofondi anti-funk di derivazione no wave, e una chitarra presa in un formidabile anti-assolo di feedback e distorsori. La scheletrica “Weatherbox”, altra danza moderna, fa emergere ancor di più le sonorità non meglio identificate, che qui si esibiscono in un vero caleidoscopio dissonante. Di nuovo l’usuale dose maniacale di inferno freddo e imprevedibilità caotica fornisce il vero senso a “Mica”, che peraltro inizia con una chitarra assorta che di punto in bianco si catapulta in uno psicodramma nichilista.

“Dead Pool” e “Einstein’s Day” invece allentano il ritmo forsennato generando un contrasto nuovamente frastornante. La prima si fa solenne meditazione quasi trascendentale (e verso la fine aggiunge l’elettronica di Swope ad aumentare la trance suprema), la seconda ne approfondisce la calma estatica e spicca fascinosamente tra il baccano del resto: chitarra e basso, altissimi, cullano il canto pacato; le fratture armoniche, qui rallentate, anticipano di netto il post-rock.
Il lato melodico si esprime soprattutto in “Train”, riff proto emo-core, subito sbrindellato dalla sezione ritmica, e canto da oracolo poetico che poi si fa cantilena strillata in mezzo alle detonazioni. La potenza che accumula la band è devastante, in grado di distruggere l’armonia fin nelle basi, come se i quattro avessero piazzato candelotti di dinamite ogni tot accordi. E la marcia power-pop lanciata alla velocità della luce di “The Ballad of Johnny Burma” inventa, di fatto, il pop-core (anche se è già fatto a pezzi e duqneu reso “post-“ dai suoi stessi inventori).
L’anthem vibrante di “That’s How I escaped My Certain Fate” fa poi capire da dove i Mission Of Burma siano partiti (“Thats When I Reach for My Revolver”) e come riescano a chiudere perfettamente il cerchio dopo tante decostruzioni.

Una, nessuna, centomila sono le lezioni dei Mission Of Burma. Anzitutto un disco di arrangiamenti perfettamente incalzanti costruiti a partire dall’assenza più totale di arrangiamenti. Ma è solo la base. C’è una sequela di momenti intensi che è moderna e, per certi versi, ineguagliata. Ci sono, soprattutto, soluzioni incredibilmente d’avanguardia per un albo di musica rock, vicine o proprio prossime al caos alienante, che spingono la new wave tutta (non solo il punk) a una dimensione ancor più altera e distaccata, il moto riottoso dei Sex Pistols a una forma d’intellettualismo di conoscenza, freddo e interiore, criptico ma denso di dinamismo, furibondo e placido allo stesso tempo. La furia della ribellione diventa estasi del nichilismo. Già il loro canto del cigno: nel 1982 il gruppo si scioglie e procede per progetti solisti, tutti di alto livello (bastino gli splendidi Birdsongs Of The Mesozoic), e pubblica - sparpagliandoli in live e antologie fino a fine 80 - gli inediti che avrebbero dovuto formare il seguito. Buon sangue non mente, la reunion dei primi 2000 riporta in auge l’intransigenza del trio di base (Bob Weston al posto di Swope all’elettronica) con competenti approfondimenti della loro stessa lezione, da “OnOffOn” al recente “Unsound” (2012). Ristampato nel 1997 (Rykodisc) e nel 2008 (Matador) con qualche bonus.

estratto da recensione michela saran ....

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